Raccontaci la tua storia professionale, il modo in cui hai scelto la tua professione in teatro e in che cosa consiste il tuo attuale lavoro?
Io sono prima di tutto una scrittrice, proprio come sono alta un metro e mezzo e come sono donna, quindi è qualcosa di imprescindibile che non ho scelto. La scrittura è come una grazia che ho avuto, un bene ricevuto alla nascita. Mi ha sempre aiutata e mi ha salvata anche nei momenti di difficoltà economica. La scrittura è la mia tata, anzi proprio la mia mamma. Il teatro è arrivato dopo, ma è stato un percorso naturale anch’esso: la mia è la tipica storia di molti, ho accompagnato un’amica a un provino, le davo le battute e a un certo punto ho pensato di provarci anche io. Avevo 18 anni, non ero molto brava come attrice, però all’epoca a Napoli non c’era una scuola di regia o di drammaturgia, e così mi sono ritrovata a recitare.
In qualche modo è come se tutto mi avesse condotto lì, ovviamente poi non sono diventata attrice, ho recitato pochissime volte e per ben altri motivi, non era la mia missione, la mia professione. Sono passata alla regia quasi naturalmente, perché scrivendo in qualche modo volevo vedere sulla scena quello che raccontavano le mie parole. A 19 anni ho fatto il mio primo spettacolo con un piccolo gruppo di non attori, per raccogliere fondi per una casa di ragazze madri. Era un periodo in cui nella città di Napoli eravamo tutti pieni di speranza e ottimismo, era il 1994, c’era il primo Bassolino, sembrava che tutto potesse cambiare. Nonostante le imperfezioni e le ingenuità degli esordi, mi sono resa conto che ero portata per questo lavoro e non ho più smesso.
Nel corso degli anni ho avuto il coraggio di fare errori e di imparare da questi e così, dopo un inizio in sordina, nel 2000 sono arrivati i primi riconoscimenti e nel 2005, con Taverna Est, la mia prima compagnia professionale con cui lavoro ancora oggi, ho vinto un premio importante – il Premio Generazione Scenario – e da lì anche a Napoli si sono accorti che esisteva questa Sara Sole Notarbartolo. Mi sentivo molto disorientata, si iniziava ad avere stima del nostro lavoro e con lo spettacolo vincitore, che si chiamava ‘O Mare, abbiamo attraversato i teatri più belli d’Italia, Santarcangelo, Volterra, il Valle prima dell’occupazione, è stato un periodo intenso di cui ho un bellissimo ricordo.
Dopo l’esperienza di Generazione Scenario ho continuato a scrivere e ho visto che il mio lavoro funzionava anche in Europa, siamo stati in Bosnia al Mostar Intercultural Festival, siamo stati in Francia sostenuti dalla Friche La Belle de Mai a Marsiglia, un luogo bellissimo, una ex fabbrica di tabacco tramutata in una factory dove attori e artisti lavorano e creano. Siamo stati lì in residenza per lavorare al Faust, e prima ancora siamo stati in residenza in Italia da Emma Dante, per esempio, che ci ha ospitati a Palermo e da quel periodo è nato La Tentazione che fu poi preso dal Mercadante, lo stabile di Napoli.
Tutto è avvenuto così, un passo alla volta, è stata una cosa molto bella ma molto faticosa, ed è una cosa molto femminile. Non c’è stato qualcuno che mi ha messo da una parte, me la sono cavata da sola e anche se ha comportato e comporta molta fatica, ti dà anche molta soddisfazione.
Bisogna essere brave a riuscire a portare agli spettacoli direttori artistici, addetti ai lavori, critici, perché si tratta di dimostrare quello che vali, che è poi il problema di noi donne, la nostra questione aperta, perché spesso non basta essere brave. Se un uomo può essere bravo, una donna deve essere bravissima e non lo dico con polemica, ma perché è questo che ci spinge a fare sempre meglio.
Come si svolge il tuo lavoro? Come passi dal testo alla scena, con riferimento, se vuoi, a uno o più progetti in particolare?
Per fare il punto della situazione, scrivo spettacoli spesso con degli attori, li metto in scena e vedo se funzionano. Seguo sempre gli allestimenti, per cui li aggiusto di replica in replica e poi, come in tutte le cose, a un certo punto, muoiono e ricomincio con un nuovo progetto.
La mia scrittura va, perché è una scrittura pratica, funzionale allo stare in scena, funziona perché la sperimento, la metto all’opera. Di solito lavoro in questo modo: io ho un’immagine, faccio una bozza di testo – a volte questa immagine nasce proprio nei laboratori e negli incontri con gli attori – do poi questo testo agli attori, loro iniziano a improvvisare, diventano il personaggio e, a volte, si comportano in modo completamente diverso da quello che io gli avrei fatto fare. Penso che un attore abbia una capacità creativa che io, ferma in camera a scrivere, posso immaginare solo in parte. Quando il personaggio diventa un cuore che batte, degli occhi che guardano, un corpo che si muove, ha una verità inevitabilmente maggiore di quella che io ho immaginato stando seduta, per questo poi riesco a scrivere personaggi maschili in modo interessante, molto più di quanto un drammaturgo maschio possa scrivere un personaggio femminile, a meno che non si confronti, o si metta a lavoro con delle attrici. Solo quando sono con gli attori sono veramente al lavoro. Lì nasce la mia scrittura, è una cosa biologica, è carne. Quindi sono in attesa dell’apertura dei teatri per toccare di nuovo tutti quanti e rimettermi al lavoro.
Non riesco a stare ferma però. Ora sto facendo una radio, una finta radio, il teatro on-line non fa per me. L’abbiamo chiamata Radio San Supplizio, pubblicata su Facebook e Youtube. È una radio comica, buffa, ambientata in un paesino che non esiste, dove lo speaker è il Sindaco molto sui generis del paese. È una cosa che sto facendo per divertimento con due attori storici della mia compagnia, Peppe Papa e Fabio Rossi e tantissimi altri eccezionali attori napoletani, nata dall’esigenza di raccontare, e poi è un prodotto molto agile perché si può fare anche in tempo di pandemia, a distanza, con i personaggi che telefonano in radio e raccontano le loro storie
Un altro progetto in cantiere, che spero di poter realizzare non appena finirà questo periodo e troverò una produzione che lo sostenga, è un progetto che amo tanto e si chiama Come in cielo. La storia è ambientata nel Settecento e parla di un gruppo di ebrei, dell’essere stranieri, ed è pensata per otto personaggi, quattro donne e quattro uomini. Sono molto affascinata dalla religione ebraica, è una religione maschilista per molti versi, come tutte le religioni monoteiste, ma ha una caratteristica bellissima, l’ebraismo si comunica in modo matrilineare, sei ebreo soIo se sei figlio di una donna ebrea. C’è questa teoria secondo cui solo nell’essere femminile si può sviluppare qualcosa di meraviglioso come un essere umano e questo è un raro segno di rispetto mistico e ancestrale per l’essere femminile. Spero di farlo davvero, anche questo spettacolo è nato da una residenza quest’estate, nello spazio Kulturfactory contemporary international residency in Irpinia. Anche in questo caso ho iniziato a lavorare con un gruppo di attori e sono nati già venti minuti di spettacolo. Ora però bisogna finirlo, vediamo che succede.
In che modo essere donna ha influenzato il tuo percorso formativo e professionale?
Essere donna ha avuto indubbiamente influenza sul mio percorso, prima di tutto perché mi accorgo che le donne vengono pagate di meno degli uomini e spesso vengono prese poco in considerazione. Per un periodo della mia vita, per esempio, ho accompagnato un gruppo meraviglioso di musicisti e attori, comici e poetici, I posteggiatori tristi, io ero la loro regista e mi occupavo anche del disegno luci. Molto spesso, in alcuni teatrini di provincia in cui il gruppo si esibiva, i tecnici e l’accoglienza erano convinti che io fossi la fidanzata di qualcuno, e non appena si rendevano conto che avevo un ruolo più importante saliva subito l’imbarazzo. Per fortuna l’ironia e il buonumore ti aiutano in questi frangenti, ma a ben pensarci è pesante perché ti capita anche con altri tipi di spettacolo e anche con teatri importantissimi. È assurdo quanto ciò incida sui tempi di produzione, come regista donna, devo calcolare il tempo necessario in cui qualche eventuale collaboratore affetto da maschilismo, sia esso il tecnico o qualcuno dell’organizzazione o produzione, accetti che sono io “il capo”, anche se adesso si stanno muovendo un po’ di cose.
Tu hai una biografia molto particolare perché hai investito sin dal primo momento su di te, hai stabilito le tue regole del gioco, quindi dal tuo punto di vista, qual è oggi la questione di genere a teatro?
La questione di genere a teatro è in un momento delicatissimo ed è molto forte, molto evidente. C’è una disparità legata alla sessualità, ci si è convinte che essendo donne bisogna continuamente dimostrare il proprio valore. Io ho avuto la fortuna di essere messa in scena in Francia, in Belgio, e in Germania il mio ultimo spettacolo Caipirinha, Caipirinha! è stato appena tradotto e verrà distribuito in diversi paesi di lingua tedesca, il mio talento è stato ed è riconosciuto, eppure quando mi siedo davanti a una produzione per parlare di un nuovo progetto mi sembra di essere in difetto, di avere questo grande difetto di essere donna e che dovrò farmelo perdonare per poter ottenere un compenso normale e lo spazio e il sostegno che è riconosciuto a un mio collega maschio, mi chiedo sempre se riuscirò a ottenere quello che mi serve per pagare gli attori, i costumi, me stessa e la scena.
Questo atteggiamento deve uscire dalla nostra testa, deve cambiare il modo in cui noi donne ci poniamo davanti a un regista o a una produzione, come se dovessimo sempre dimostrare qualcosa. I nostri colleghi uomini non devono dimostrare niente, a loro sembra sempre tutto dovuto, purtroppo la penso così. La questione di genere nel teatro parte dalla questione di genere in assoluto nella società.
Noi donne dobbiamo essere come Mazinga, eppure non possiamo stare lì a lavorare il triplo di quello che fa un uomo, perché non è giusto. Se ci brucia la schiena, ci fanno male i piedi, ci sentiamo sconfortate, non dobbiamo fermarci, dobbiamo andare avanti e imporci, perché non lo facciamo solo per noi. Noi della nostra generazione siamo la porta girevole che deve accompagnare tutte le altre donne a ritrovare la normalità di fare il nostro lavoro. Quindi dobbiamo avere spalle forti e lasciare qualcosa di buono per le ragazze che verranno. Siamo aiutate dai tempi, se pensiamo alla situazione femminile di venti o trenta anni fa abbiamo fatto in poco tempo passi da gigante, le cose miglioreranno, però non bisogna abbassare la guardia.
C’è bisogno del femminile, noi muoviamo cose e siamo molto creative, siamo molto attente, siamo molto accudenti, quindi avere del femminile al potere è una cosa che non può che far bene alla società, figuriamoci al mondo dello spettacolo che è una cosa così competitiva, forte e dura. C’è bisogno di più donne, c’è bisogno di donne accoglienti, donne che non si adeguano a modelli maschili. Forse è questo che sta cambiando in questo momento, in assoluto la modalità accogliente sta prendendo piede, quindi forse per questo noi stiamo andando in risonanza e abbiamo anche un po’ più coraggio di affermare “io sono una donna e voglio difendere me, nella mia femminilità nel mio essere femminile e anche le mie colleghe”.
L'intervista è stata realizzata da Stefania Bruno e Loredana Stendardo nel mese di gennaio 2021 nell'ambito del progetto "Donne e impresa teatrale in Campania"