Raccontaci la tua storia professionale, il modo in cui hai scelto la tua professione in teatro e in che cosa consiste il tuo attuale lavoro?
Fin da giovanissima sono sempre stata molto creativa e attratta da diverse forme d’arte, mi appassionava molto la fotografia, la creazione di video, il cinema, ma è con la danza e con il linguaggio del corpo che ho trovato la mia strada e l’ho percorsa senza esitazione, e adesso mi ritrovo qui, donna, del sud, in questa città, in questo paese l’Italia, che ci riempie di tanto, ci meraviglia, ma che ci impone anche dei limiti nel poter realizzare a pieno il nostro mestiere.
Ho iniziato come danzatrice, sfruttando a pieno le possibilità che c’erano allora studiando tra l’Italia e l’estero, certo non c’era la velocità di sapere cosa succedeva all’estero come la abbiamo adesso però nonostante questo ho viaggiato molto per la mia formazione e, nel momento in cui ho scelto di rimanere qui, da subito mi sono dedicata alla coreografia, nata come un’esigenza per creare ed esprimere quello che avevo dentro, una necessità che ho sentito fina da piccola. Ho iniziato prestissimo a fare degli esperimenti in video, ancora con le telecamere con il nastro anche se in alta qualità, mi piaceva tantissimo, e avrei voluto fare qualcosa di più legato al cinema nel mio percorso, però poi la danza mi ha sempre trattenuta e riportata alle mie radici e ho continuato su questa strada.
Parallelamente alla fase creativa, giovanissima ho iniziato a essere anche organizzatrice, proprio qui sul territorio flegreo, organizzando festival ed eventi per le rassegne estive della città. Poi ho conosciuto Claudio Malangone e ho iniziato a lavorare con lui con la sua compagnia. Abbiamo lavorato insieme diversi anni fino alla fondazione nel 2003 di ArtGarage.
ArtGarage è uno spazio ambizioso e coraggioso, fatto per la maggioranza da donne, fondato insieme alla mia amica storica Veronica Grossi che viene dal mondo del teatro. Si tratta di uno spazio visionario sul modello degli spazi multidisciplinari europei interamente dedicato alla cultura della danza, del teatro, e delle arti performative contemporanee, con una sala teatro, una sala per le esposizioni e la possibilità di realizzare laboratori di vario genere. Diciamo che ci siamo riuscite e con tanta resistenza siamo tutt’oggi ancora attive, probabilmente anche perché siamo donne ed è innato in noi un senso di cooperazione.
L’ultimo percorso lavorativo invece si è aperto qualche anno fa, quando mi è stata fatta la proposta di occuparmi della curatela della danza al teatro Bellini di Napoli. Una proposta venuta da un’altra donna, Manuela Barbato, con la quale condivido questo percorso. La possibilità di ricoprire un ruolo del genere, in un teatro così bello e così importante per la nostra città, mi ha dato molta soddisfazione e mi fa pensare che forse in tutti questi anni qualcosa ho smosso. Sono ormai quattro anni che Manuela ed io lavoriamo a questo progetto, che era nato grazie a un uomo che ha avuto la curatela artistica prima di noi, Antonello Tudisco. Quando siamo subentrate abbiamo rimesso a nuovo il progetto e adesso siamo molto fiere del fatto che il Teatro Bellini sia uno dei pochi teatri italiani che ha una stagione di danza che in questi anni è cresciuta tantissimo, con ospiti nazionali e internazionali e con le sale sempre piene. Adesso con la pandemia siamo fermi, ma aspettiamo e non vediamo l’ora di ritornare in teatro nella normalità.
Come l’essere donna ha influenzato il tuo percorso formativo e professionale?
All’inizio del mio percorso il fatto di essere donna non ha influenzato le mie scelte e non l’ho mai percepito come limite per esplorare le possibilità che avevo a disposizione. C’è da dire che ho avuto una madre molto grande di età e penso che proprio questo distacco di età le abbia dato una maturità differente, inoltre è stata un buon esempio poiché nel un periodo in cui le donne faticavano ancora molto per affermarsi, lei già aveva raggiunto un ruolo apicale come direttrice di un ufficio postale. Questo ha indubbiamente influito su di me e mi ha insegnato a considerare me stessa in quanto Emma, una persona prima di tutto, al di là del genere. Essere identificata uomo o donna, darmi una collocazione precisa mi fa sentire limitata, perché sento che nella mia crescita, nel mio modo di essere c’è anche qualcosa che mi è stato insegnato dagli uomini che hanno vissuto accanto a me e che mi hanno cresciuto, dagli uomini che conosco e con cui mi relaziono, quindi se mi definisco unicamente legata al femminile faccio quello che non vorrei fare alle donne, dare loro un’etichetta. Io sono donna, senza dubbio, ma sono anche fatta di una sensibilità altra, prima di essere un genere, sono un essere umano. Questo è il mio punto di vista, un pochino più largo.
C’è un progetto cui sei particolarmente legata e che è stato importante per te agli inizi della tua carriera, o anche in fase più avanzata?
Come ho già detto, agli inizi della mia carriera artistica ancora non avevo ben chiaro cosa avrei voluto fare, ero attratta dalla fotografia, dal disegno, dall’utilizzo della telecamera, per un periodo ho costruito oggetti, creato costumi, non riuscivo a incanalare questa grande creatività. Poi crescendo, mantenendomi ben salda alla danza, senza però abbandonare il mio estro, a un certo punto è stato chiaro quale sarebbe stato il mio percorso creativo e dal 2000 in poi ho iniziato la mia ricerca sull’utilizzo delle nuove tecnologie applicate alla performance, lavorando su installazioni, sugli ambienti visivi e sonori con il corpo.
Una delle creazioni di cui veramente sono molto fiera e che mi emoziona sempre tanto è Memoria divisa, un lavoro del 2009 per la prima edizione del Napoli Teatro Festival Italia. Il tema trattato sono le foibe, una pagina di storia ancora ignota a molti, ma che fa parte del vissuto della mia famiglia materna e che volevo fortemente tradurre in danza. Per l’occasione lavorai a una installazione in audio 3D che ricrea un ambiente sonoro capace di avvolgere completamente gli spettatori in uno spazio, e considerando che è una performance di circa undici anni mi sento molto orgogliosa, perché l’utilizzo di questo sistema audio è ancora molto attuale. Con questo lavoro abbiamo sperimentato e il risultato è stata una performance senza tempo di forte impatto emozionale. Da lì, la squadra di lavoro non si è piu separata, e abbiamo formato un collettivo con l’artista visivo francese Gilles Dubroca, che vive e lavora in Italia, e il sound designer Dario Casillo anche lui di Pozzuoli. Io sono l’unica donna, il capo però. Siamo un gruppo abbastanza compatto, a volte abbiamo coinvolto anche artisti del territrio come Raffaele Lopez, sempre di Pozzuoli, un musicista e compositore. Quindi lavorando così a più mani sono nati altri bei progetti e per quattro anni di seguito ne abbiamo realizzato quasi uno all’anno.
Poi la difficoltà a replicare in quello che è il sistema italiano della distribuzione degli spettacoli mi ha stancato e fatto arenare. Si è creata in me, cosi, una nuova coscienza: l’essere donna all’interno di un mondo a maggioranza maschile, dove non ci è stato lo spazio per una creativa donna del sud. Questo mi ha fatto arrabbiare e avvilire. Piu cresco per età, progettualità e professionalità e piu mi rendo conto che sono accerchiata da uomini, questo non sta limitando la mia ascesa, ma spesso lo percepisco come un disagio.
Questo disagio, questa nuova percezione del tuo essere donna come ha influenzato le tue scelte successive?
Questa presa di coscienza è coincisa con la maturità, a un certo punto sentivo di non farcela più a lavorare come in passato, e stavo per arrendermi. Poi il lavorare sodo e bene ha fatto in modo che nel 2018, dopo tantissimi anni, il mio lavoro fosse riconosciuto e sostenuto dal Ministero. È bastato poco mi sono subito messa a lavorare a capofitto in un progetto sul mondo femminile che si intitola Cielo, un viaggio sensoriale attraverso i millenni, sulla trasformazione delle icone femminili. Uno studio antropologico sulle dee primordiali, da Ishtar prima Dea Madre delle civiltà antiche, passando per il culto di Iside, di Demetra, di Venere, fino all’adorazione della Vergine Maria. In scena un corpo di danza di otto danzatrici principali, che poi si allarga a sedici, fino ad arrivare alla presenza di sessanta donne tutte di età differente e molto diverse tra loro, per raccontare il femminile e i suoi molteplici aspetti. Con questa creazione mi sono sentita chiamare femminista eppure non mi sento tale. Per me affrontare questo tema era una necessità, volevo trasmettere al pubblico il disagio dovuto al fatto di trovare sulla mia strada sempre e solo uomini, volevo creare una sorta di ossessione tra gli spettatori che dovevano sentirsi sopraffatti da questa massiccia presenza femminile, così come io ho provato a volte in certe circostanze.
Hai parlato dell’importanza della consapevolezza, della presa di coscienza che avviene con il tempo, un nodo centrale nella questione di genere che non sempre viene percepita nella sua complessità.
È proprio questo il punto, la presa di coscienza è un processo lungo e complesso, quando ero più giovane non avvertivo questo disagio, probabilmente, come ho già detto, perché avevo come esempio una madre che si era realizzata anche da un punto di vista professionale e mi trasmetteva molta sicurezza, poi nel momento in cui ho messo la testa fuori dal sacco e ho preteso di dimostrare chi fossi, ho iniziato a capire che qualcosa non andava, che non sempre avevo le stesse possibilità di un uomo. Se pensiamo al mondo della danza quello che colpisce è che alla base, negli anni di formazione, c’è una predominanza femminile, poi più sali con l’avanzare dell’età e nei ruoli apicali, quelli in cui puoi più esprimere l’estro e la creatività, le donne spariscono. Coreografe e direttrici di compagnia si contano sulla punta delle dita e non parlo solo dell’Italia, parlo del mondo. C’è una sproporzione incredibile nel nostro settore, più vai avanti, più le donne vengono messe da parte e relegate a danzatrici, nonostante la storia ci insegni che grandissime coreografe sono coloro che hanno cambiato il genere della danza, pensiamo a Isadora Duncan, Martha Graham, Pina Bausch, solo per citarne alcune.
Parlare della questione di genere, da che non era un argomento di mio interesse, è diventata per me un’esigenza, sono arrivata a un punto in cui non posso farne più a meno e sento di essere appena agli inizi. Cielo è stato solo il primo passo. Attualmente sto lavorando su uno spettacolo sulla violenza di genere affrontando l’argomento in tutta la sua crudezza. Vorrei riuscire a creare atmosfere horror, non so se ci riuscirò perché sono dei ritmi molto particolari, ma il processo creativo è innescato e spero di concluderlo presto.
A conclusione vorrei dire che, poiché spesso quando mi confronto con un uomo i toni non sono sempre adeguati e spesso non mi fanno sentire a mio agio, mi piacerebbe incontrarne uno che avesse la mia stessa sensibilità, la mia stessa coscienza e che non si riconosca in un genere, ma che si senta un essere umano con sfaccettature femminili e maschili in egual misura, cosi come mi sento io.
L'intervista è stata realizzata da Stefania Bruno e Loredana Stendardo nel mese di aprile 2021 nell'ambito del progetto "Donne e impresa teatrale in Campania"
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