Raccontaci la tua storia professionale, il modo in cui hai scelto la tua professione in teatro e in che cosa consiste il tuo attuale lavoro.
La mia passione sono sempre state le arti visive, la pittura in particolare, e quando in età liceale ho cominciato a vedere alcuni spettacoli che rispondevano a un’ottica di grande intersecazione fra i diversi linguaggi dell’arte, ho iniziato a pensare che mi sarebbe piaciuto lavorare in una dimensione in cui l’aspetto visivo concorre alla creazione di un momento unico che viene condiviso. Tra gli spettacoli che più mi hanno segnato posso citare Flowers di Lindsay Kemp, gli spettacoli di Laboratorio Teatro Settimo, Le affinità elettive tratte da Goethe e Libera nos a malo, che ho visto durante le loro incursioni a Napoli, e poi molti altri ancora che fanno parte di un certo tipo di teatro performativo che fa uso della citazione di immagine come uno strumento in più per connotare lo spazio magico del rituale di scena. E così, mentre portavo avanti gli studi all’Accademia, è stato naturale cercare stage in ambito teatrale. Le prime esperienze, forse più importanti, sono state quelle con Libera Scena Ensemble a Napoli e l’incontro con Maria Izzo e Arcangela Di Lorenzo, entrambe scenografe. Poi ci sono stati i primi lavori a Torino al Teatro di Dioniso con Valter Malosti, cui sono seguiti quelli a Genova con il Teatro Cargo diretto da Laura Sicignano e successivamente con il Teatro della Tosse dove ho incontrato Emanuele Luzzati.
Dal punto di vista pratico, l’approccio lavorativo che ho sempre avuto è quello di puntare a una scenografia che non sia strettamente descrittiva, ma che sia il più possibile di impatto emotivo e di accordo e di sostegno all’azione scenica. In tal senso, il fatto di avere una passione per le arti visive è servito a cercare di mescolare il più possibile linguaggi diversi e di utilizzare pratiche che sono un po’ più legate alle arti pure, come l’uso di oggetti di risulta, la loro trasformazione e il riutilizzo, dandogli una seconda vita, trasformandoli di segno e di significato, mettendoli in contesti o funzioni diverse. C’è sempre stato un po’ questo giocare su piani differenti, citare elementi della cultura visiva non teatrale, ma strettamente pittorica, dall’ideazione che diventava strettamente connessa alla realizzazione. Spesso i progetti nascevano in corso d’opera, con il lavoro di laboratorio realizzativo e poi con una pratica di manualità si entrava direttamente anche nell’aspetto progettuale.
Questo tipo di approccio, cioè l’avere una tendenza naturale a lavorare anche sul piano ideativo direttamente in forma concreta, mettendomi in campo il più possibile come realizzatrice, ha fatto sì che ci fosse una dimensione di relazione, per certi aspetti un po’ privilegiata, con tutte quelle figure che rientrano nell’ambito delle maestranze del teatro.
Come l’essere donna ha influenzato il tuo percorso formativo e professionale?
Per quanto riguarda la mia professione, si tende innanzitutto a pensare che chi lavori alla scenografia sia “lo scenografo” e non “la scenografa”, o meglio si tende il più delle volte a immaginare maschili le figure autoriali, quelle di maggior impronta artistica. Questa tendenza è maggiormente amplificata quando si entra nell’ambito del palcoscenico e delle questioni tecniche connesse alla realizzazione e al montaggio, o ai lavori di carpenteria. In questo caso ci troviamo nell’ambito degli aspetti manuali, delle abilità non solo artistiche, ma pratico tecniche e meccaniche che sono comunemente ritenute esclusivamente appannaggio maschile.
Fare la scenografa entrando in relazione con i macchinisti, con i tecnici, è una cosa che comporta di fatto due vie possibili: o dimostri che ne sai quanto e più di loro, oppure giochi la parte della fanciulla da soccorrere, una terza via non è ammissibile. Per fortuna, più di recente, il parterre dei tecnici nei teatri si è andato facendo meno esclusivamente maschile e quindi si sta leggermente attenuando la problematica, però come spesso accadeva un po’ di tempo fa, e comunque nella stragrande maggioranza dei casi, bisogna mettere in conto che l’atteggiamento nei confronti di una donna sarà mediamente più diffidente che nei confronti di un uomo. Questo lo dico senza alcun tipo di risentimento, nel senso che sono cose a cui semplicemente ci si abitua, ci si fa anche una risata su, e quando ti approcci per la prima volta, man mano che ti relazioni, capisci qual è la tipologia di persona con cui hai a che fare e quindi se è meglio relazionarsi subito da pari a pari e far capire che c’è una competenza, o se invece è meglio giocare la carta della fanciulla da salvare, forse l’estrema ratio nei casi di maggior diffidenza, perché paradossalmente quando la diffidenza è maggiore e c’è un approccio molto pregiudiziale funziona di più mettersi in una posizione di estrema umiltà in partenza e sollecitare lo spirito cavalleresco di soccorso perché questo gratifica l’aspetto virile dell’interlocutore.
Purtroppo, per esperienza, non esiste una terza via, è raro che ci sia la possibilità di essere accolti tout court come persona che ha una professionalità pacificamente riconosciuta. Questa è anche un po’ una problematica che va al di là della questione di genere, riguarda l’approccio al palcoscenico in generale, una dinamica di relazione sempre un po’ delicata, che naturalmente si acuisce se di base c’è una sorta di diffidenza nei confronti di chi va a svolgere un ruolo di coordinamento che viene percepito come ruolo di comando. C’è dunque un problema di fondo della relazione fra chi porta il progetto e chi lo deve mettere in opera, ancora più marcato se chi porta il progetto è una donna.
Ovviamente questa è una generalizzazione, perché poi a seconda dei contesti culturali le cose possono cambiare veramente parecchio, le problematiche sono diverse se si ha a che fare con un piccolo teatro o con un grande teatro, e maggiormente diverso se ci confrontiamo con un piccolo teatro o un grande teatro del sud Italia e i teatri del centro o del nord, perché poi entrano in ballo altre questioni.
Nel caso del teatro piccolo la questione di genere spesso è meno evidente perché entra in ballo una questione di strutturazione del lavoro con ruoli meno strettamente definiti, se il teatro ha una dimensione quasi familiare di lavoro è chiaro che le relazioni sono tendenzialmente più fluide, poi magari ci può essere l’equivoco su chi fa cosa, però è una dimensione in cui tutti più o meno fanno tutto e in qualche maniera si punta molto di più alla collaborazione e meno all’impronta della definizione di ruolo. Nel grande teatro invece è più evidente, un po’ perché ovviamente sono macchine più grosse, un po’ perché c’è la presenza dei sindacati, un po’ perché ci sono tante dinamiche che riguardano i luoghi di lavoro, soprattutto quelli a partecipazione statale che sono più complessi dal punto di vista relazionale e per necessità hanno una suddivisione di ruoli e incarichi ben precisi.
Dal tuo punto di vista, a teatro oggi è possibile parlare di una questione di genere?
Per quello che riguarda la questione di genere credo sia ancora molto evidente la differenza nord sud. Avendo lavorato sia con compagnie e teatri del Piemonte, della Liguria e della Lombardia, del Lazio, della Puglia e della Campania devo dire che, fatte le debite proporzioni tra le piccole strutture e le grandi, la questione di genere al sud è ancora più marcata rispetto al nord. Non è una questione che riguarda specificamente il teatro, anzi il teatro tutto sommato è un’isola felice da questo punto di vista, perché è il luogo dove vivono e agiscono i diversi, quindi in qualche modo le stranezze rispetto ai luoghi comuni sul genere sono più contemplate che altrove. Di base però c’è una dimensione culturale diversa secondo cui i lavori manuali, i lavori che in qualche modo hanno a che fare con l’ambito vasto dell’architettura, fosse anche architettura effimera come nel caso dello spettacolo, hanno generalmente nell’immaginario collettivo più attinenza col maschile. Il faber è uomo e non è donna, proprio per tradizione latina, per cultura classica. C’è così una spartizione dei ruoli e delle mansioni che affonda moltissimo le radici in degli aspetti di cultura di genere. Per esempio, è molto più facile che siano uomini i falegnami e i costruttori che non donne, e viceversa è più facile che siano donne, adesso più di recente e perlomeno nelle grandi strutture, gli addetti alla scultura e alla pittura: l’aspetto strutturale è maschile, l’aspetto artistico e decorativo può essere anche femminile. Poi ovviamente tutto ciò che ha a che fare con i tessuti, dalla sarta di scena alla costumista è prevalentemente femminile. Nel momento in cui però si entra in un ambito di livello talmente elevato, con una forte riconoscibilità autoriale, ecco che anche in quelle posizione prevalentemente femminili le donne spariscono per lasciare spazio agli uomini.
L’aspetto autoriale è uno dei grandi dibattiti alla base dei mestieri artigianali per il teatro, al di là del discorso di genere, il lavoro sulle scene e la loro ideazione è comunque irregimentata di solito, dal punto di vista beceramente amministrativo, o sotto forma di partita IVA o sotto forma di collaborazione artistica, il che si concreta nella totale cessione dei diritti d’uso. Non è contemplato infatti che lo scenografo goda dei diritti d’autore, così come avviene per il drammaturgo o per altre figure della creazione teatrale. Evidentemente è una figura considerata autoriale fino a un certo punto ed è spesso vista come una figura di supporto alla drammaturgia e alla regia, intese come le vere figure autoriali e che infatti, insieme alla produzione, godono dei diritti d’uso, dei diritti d’autore di quella creazione nel corso delle repliche. Questo stesso discorso vale anche per il o la costumista e per tutte quelle figure professionali che rientrano nell’ambito delle attività “manuali” che ruotano attorno alla creazione dello spettacolo e che dunque non rientrano nell’ambito dell’autorialità dal mero punto di vista del trattamento contrattuale. Si tratta di una battaglia che alcuni portano avanti da diversi anni, ma che di fatto non si è mai risolta, sempre per un retaggio culturale antico ancora più evidente in quei mestieri come quelli del teatro che hanno un’impronta molto artigianale e non aziendale. Il punto è questo qui, fare la scenografa progettista a teatro certe volte sembra un po’ come il famoso nero ebreo americano del Bronx di Woody Allen.
C’è stato un momento in cui essere donna è sembrato un problema nello svolgimento della tua professione?
Personalmente il fatto di essere donna non ha mai creato grandi problemi, in linea di massima quello che percepisco sono piccole cose sottili che diventano però importanti solo nel momento in cui lasciamo che minino la nostra sicurezza sul lavoro. Probabilmente c’è bisogno di maggiore consapevolezza interna del proprio valore rispetto a quella che normalmente è necessaria per gli uomini, bisogna sempre lavorare un po’ su questo, in primo luogo perché non sempre è automatico che questo valore venga riconosciuto, e in secondo luogo perché se mediamente per un uomo è normale essere educato all’esercizio dei propri diritti e delle proprie capacità, per una donna, seppur proveniente da un ambito familiare evoluto, tutto il contesto culturale attorno educa soprattutto a esercitare le proprie capacità di essere al servizio degli altri e non la capacità di manifestare il proprio talento. Ma è una questione di fondo, relativa a qualsiasi altro ambito lavorativo. A teatro in particolare, essendo il luogo per eccellenza e per tradizione delle eccezioni e delle diversità, si raccontano anche tante storie di eccellenze femminili.
Probabilmente, quel che viene riconosciuto con più fatica è il fatto di avere un tratto personale, cioè una cosa è essere brave e una cosa è avere una personalità. Prima che a una figura artistica femminile venga riconosciuta personalità, passa un tempo maggiore rispetto al fatto che le venga riconosciuta bravura, perché bravura è essere le prime della classe, invece il talento o la cifra personale è il riconoscimento di un’identità della persona nella sua totalità, indipendentemente dal genere.
Io mi ritengo piuttosto fortunata per quel che riguarda le mie esperienze lavorative sia perché ho incontrato delle persone che mi hanno dato tantissimo e da cui ho potuto apprendere tantissimo, sia perché comunque non ho mai percepito fortemente la sensazione di essere tenuta in scarsa considerazione dal punto di vista professionale per il fatto di essere una donna, posso avere incontrato delle singole diffidenze, sottili atteggiamenti di diffidenza nei rapporti con le altre figure del palcoscenico, però difficilmente mi è capitato di incontrare diffidenza per esempio nel rapporto creativo con la regia. Forse i primi tempi, quando ero più giovane, è accaduto perché si univano le due cose: l’idea che si potesse essere privi di esperienza concreta chissà perché era più facilmente ventilabile per una donna giovane che non per un uomo giovane.
Devo anche dire che sono stata fortunata nel riuscire a perseguire un tipo di lavoro in un ambito teatrale che non è facilissimo, in un mercato particolare che è quello del lavoro con i gruppi del teatro di ricerca, perché solitamente si fa pratica e c’è più spazio nel teatro tradizionale che ha quantomeno più risorse. Nell’ambito del teatro ricerca ci si confronta con dimensioni creative comunitarie che ovviamente nessun tipo di compagnia o teatro stabile ti potrà mai fornire, penso le esperienze fatte al Koreja, al Potlach e a tutte quelle situazioni in cui la dimensione creativa è possibile anche per motivi logistici, c’è la foresteria, ci sono degli spazi comuni, e quindi il luogo fisico è pensato per una creazione collettiva che dura un certo tempo.
Quello che adesso manca di più non sono le risorse in senso stretto, intese come risorse economiche in quel sistema, ma la conseguente mancanza di tempo, c’è una restrizione del lavoro comunitario, dobbiamo stare a distanza e in più i ritmi diventano sempre più serrati a scapito del tempo della meditazione intorno allo spettacolo. Se uno lo fa, lo fa per sé, al di fuori di quelle che sono le condizioni economiche del lavoro, e credo che in questo forse l’aspetto femminile abbia una componente importante perché le donne hanno da sempre la capacità di preservare lo spazio della creazione, lo spazio più dell’interiorità, dell’identità, anche nei momenti di difficoltà.
Io spero che ci siano sempre più figure femminili all’interno del teatro, anche nelle mansioni tecnico-artistiche, per riuscire a preservare in questo momento storico che stiamo attraversando l’identità di quel che si sta facendo. In un momento in cui si sente parlare di qualunque cosa in sostituzione del teatro in presenza, è necessario non abbandonare la propria identità per non diventare il surrogato di qualcos’altro.
L'intervista è stata realizzata da Stefania Bruno e Loredana Stendardo nel mese di aprile 2021 nell'ambito del progetto "Donne e impresa teatrale in Campania"
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