Ilaria, napoletana, classe 1975 e, nel bel mezzo dei miei 45 anni e di una pandemia, posso dire con certezza che l’amore per il teatro ha fatto capolino nella mia vita molto presto. Fin da piccolissima mi divertiva organizzare spettacoli, sotto forma di gioco, ai quali sottoponevo familiari e amici. Credo avessi tredici anni, quando rimasi letteralmente rapita dall’opera Madama Butterfly, fu la mia prima volta al Teatro San Carlo, grazie a un’audace e intelligente professoressa d’italiano. L’amore per le cose belle può essere contagioso, volendo usare un termine rischioso che ha assunto una connotazione spaventosa in quest’anno segnato dalla pandemia.
Tornando al passato, mia nonna materna, grande amante del teatro, amava ascoltare la prosa alla radio; quando si guardavano le commedie di Eduardo De Filippo in famiglia, mia madre raccontava di quanto era stato emozionante assistere ai suoi spettacoli in teatro; in casa si raccontavano, come fossero leggende, le strepitose storie di zia Jole, soprano al San Carlo, ed io, assetata di curiosità, non mi stancavo mai di ascoltarle.
Intanto la vita scorreva, era il 1990, nasceva il movimento della Pantera, si occupavano le scuole e le università, si organizzavano concerti e manifestazioni, e sulla scia del movimento, furono occupati in tutto il paese numerosi spazi, incluso quello di Officina 99 a Napoli. Proprio in quei primi anni Novanta, io trascorrevo gli anni più belli, quelli della formazione, nel laboratorio teatrale Bardefé, diretto da Umberto Serra, all’epoca cuore del fermento artistico partenopeo e fucina di numerosi artisti tra cui Monica Nappo, Valentina Curatoli, Emanuele Valenti, Nicola Laieta, Michelangelo Dalisi e tanti altri. Mettevamo in scena autori quali Beckett, Garcia Lorca, Camus, Karen Blixen con la collaborazione di grandi maestri come Enzo Moscato. Mi sembra sia passato un secolo…
Scelsi di frequentare Sociologia e durante gli anni dell’Università ho conosciuto e frequentato diversi laboratori, tra cui quelli di Sara Sole Notarbartolo, oggi affermata drammaturga e regista. Ci muovevamo negli spazi del Cerriglio, in Via Sedile di Porto, provavamo a scrivere e progettare cultura in spazi alternativi quando non era ancora di moda. Cercavo di capire quale sarebbe stato il mio posto nel mondo, frequentavo il Teatro Nuovo, nel frattempo l’antropologia, l’amore per il teatro e il modo in cui proprio il teatro potesse divenire strumento potente di interventi sociali si facevano largo dentro di me.
Nel 2005, dopo un anno trascorso a Londra per amore, rientrando a Napoli ho colto l’occasione di unire la passione per il teatro e la necessità di lavorare nel sociale. Sono stata selezionata per il corso di specializzazione come Operatore Teatrale nelle aree di disagio sociale, nell’ambito del progetto “Techné – Orientamento e Formazione per i Mestieri dello Spettacolo”, organizzato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e diretto da Ruggero Cappuccio. È stato un anno di incontri e di crescita con professionisti quali Nadia Baldi, Nicoletta Robello, Francesco Niccolini, Roberto Ricco, e tanti altri maestri; l’anno in cui sono stata catapultata a Volterra con tutta la paura di non farcela e ho lavorato al fianco di Cinzia de Felice, donna esigente e straordinaria che mi ha insegnato cosa significhi essere un’organizzatrice e Armando Punzo, maestro visionario dal quale ho imparato che il teatro è ragione di vita e che quella ragione di vita poteva essere anche in un carcere di massima sicurezza.
Il 2006 era l’anno del premio Ubu per la Compagnia della Fortezza, e abbiamo girato l’Italia in Tournée con I Pescecani, ovvero quello che resta di Bertolt Brecht, ho lavorato come Assistente alla Direzione del Festival VolterraTeatro06 e ho conosciuto gli operatori culturali che poi avrei incontrato negli anni a seguire. Mi è stata affidata la responsabilità del Progetto Europeo “Teatro e Carcere in Europa” per lo sviluppo e la divulgazione di metodologie innovative che mi ha portato al Riksteatern di Stoccolma, all’Aufbruch Theater di Berlino e al Théâtre de Oprimè di Rui Frati a Parigi. La mia collaborazione con Armando e Cinzia è stata la pietra miliare per tutti gli anni a seguire.
Tornata a Napoli, ho coordinato dal 2007 al 2015 la Rassegna teatrale Il Carcere Possibile, con la partecipazione di attori detenuti, ospitata dal Teatro Stabile di Napoli. Il mio rientro a Napoli, ma soprattutto la mia scelta di restare, sono stati determinati dalla possibilità offerta dal Napoli Teatro Festival che nasceva proprio in quegli anni, come un sogno, e che nel triennio 2007-2010 era sotto la direzione artistica di Renato Quaglia. Grazie alla fiducia di Renato, di Giuliana Ciancio e di tutta quella magnifica squadra, ho avuto l’opportunità di crescere professionalmente in ambito organizzativo, di sperimentare al fianco di compagnie internazionali, di coordinare site-specific performance in luoghi spettacolari della città, dai tetti alla Napoli sotterranea. Ho visto nascere e realizzarsi produzioni con artisti del calibro di Robert Lepage, Enrique Vargas, Alexander Zeldin, Matthew Lenton, Rodrigo Pardo, lavorato al fianco di scrittori come Dacia Maraini.
Nel 2011 cambiano molte cose e tocca reinventarsi. Negli anni a seguire ho collaborato con agenzie, istituzioni culturali e organizzazioni indipendenti sia sperimentando le nuove forme di comunicazione che l’organizzazione di progetti culturali come La Grande Bellezza ideato da Officinae Efesti. Sono tornata al Napoli Teatro Festival solo qualche anno fa, in maniera non continuativa, con la direzione di Ruggero Cappuccio e grazie alla stima che ha di me una donna, una instancabile organizzatrice, Lina Gisonna. Un festival diverso, con circa 100 spettacoli per ogni edizione e con una forte identità costruita sul territorio. Attualmente la sfida più grande, per la natura del progetto, è Arrevuoto, giunto al suo quindicesimo movimento e che probabilmente non andrà in scena come lo scorso anno, causa pandemia, ma le sfide difficili vanno portate avanti e questo progetto lo è fin dalla sua nascita. Il mio lavoro è precario, fortemente instabile, ma il mio essere donna mi ha dato la forza di superare grandi ostacoli e, soprattutto, di trarre insegnamento dai fallimenti, rialzandomi sempre.
Ho scelto di vivere a Napoli, di investire le mie energie in questa città, anche se mi è costato molto, sia in termini personali che di fatica lavorativa. Col tempo, credo di aver pagato un prezzo molto alto, che Napoli possa trasformarsi in una Medea, ma sono soddisfatta del mio percorso, nonostante tutto.
Ilaria Ceci
organizzatrice teatrale