Raccontaci la tua storia professionale, il modo in cui hai scelto la tua professione in teatro e in che cosa consiste il tuo attuale lavoro.
Ho avuto sempre una grandissima passione per il teatro e in particolar modo per la recitazione, la consapevolezza però di voler fare questo mestiere è giunta verso i vent’anni, ricordo che stavo seguendo all’Orientale il corso di storia del teatro del professor Claudio Vicentini che ci consigliò una serie di spettacoli da andare a vedere in vista dell’esame, io scelsi uno spettacolo che si intitolava Maledetti, prodotto dalla compagnia CRASC (Centro di Ricerca sull’Attore e Sperimentazione Culturale) per la regia di Lucio Colle, in scena al Teatro Leopardi di Fuorigrotta. Visto quello spettacolo, mi sono praticamente innamorata di quello che gli attori facevano provare alle persone, quelle emozioni così totalizzanti, e ho subito pensato che avrei voluto farlo anch’io, farmi guardare e ascoltare da un pubblico e trasmettere qualcosa di estremamente forte. Per cui da lì ho chiesto direttamente a Lucio Colle come fare, che percorso intraprendere per riuscire a fare un giorno uno spettacolo come quello, e lui mi invitò a frequentare il loro corso di teatro. Quindi ho effettivamente cominciato con lui, che considero il mio maestro, non solo di recitazione, ma un maestro di vita e di organizzazione, di tutto quello che c’è dietro uno spettacolo teatrale. Poco dopo aver cominciato, Lucio capì la sincerità della mia passione per il teatro in ogni suo aspetto e mi propose di fare dei piccoli lavori per la sua compagnia, per pagarmi il corso. Ho cominciato a staccare i biglietti, poi mi sono occupata dell’accoglienza, della segreteria, un po’ alla volta mi ha insegnato praticamente tutto quello che c’era da sapere sull’organizzazione teatrale e infine sono passata anche all’ideazione e alla stesura di progetti. Il Teatro Leopardi chiuse poi nel 2002 e nel 2007 lui mi lasciò la sua compagnia CRASC, una cooperativa con una lunga storia, nata nel 1978 in un periodo molto particolare sia per le cooperative sia per lo sviluppo della ricerca teatrale a Napoli, ma anche nel resto d’Italia.
Nel 2007 dunque prendo io la direzione della Cooperativa CRASC e inauguro un mio percorso di ricerca teatrale un po’ più concentrato sulla città, sul linguaggio, sui personaggi, sulla vita napoletana e infatti uno dei lavori che maggiormente mi rappresenta, un lavoro con cui ho tentato di comunicare la città, è uno spettacolo che si chiama Napoli. Interno. Giorno. che fu ospite nel 2012 al Napoli Teatro Festival, uno spettacolo itinerante site-specific nei vicoli del centro storico e che si snodava in quattro spazi diversi. I protagonisti della storia erano due dottori che andavano a fare delle visite a domicilio, quindi si partiva da uno studio medico e poi si arrivava in tre tipi di appartamenti molto diversi tra loro, uno più borghese, un basso e un appartamento di una signora anziana. Lo spettacolo cominciava con un funerale e finiva con una nascita, e nella sua composizione ho provato a mettere quello che è il mio sentimento verso Napoli, una città che trova nella via di mezzo tutte le strade giuste, questa almeno era la mia visione. Io ho scritto il soggetto, poi lo sviluppo della drammaturgia è stato di Carmine Borrino e la regia di Marco Luciano, allora giovanissimi, una squadra con cui mi sono trovata veramente benissimo e desidererei molto lavorare nuovamente in questo modo. Lo spettacolo è rimasto un po’ nella nella storia del Festival, tanto è vero che i giornali lo segnalarono come lo spettacolo cult di quell’edizione, perché era veramente molto particolare, solo per 24 spettatori alla volta e si concludeva con un invito a pranzo, con un vero e proprio assaggio di ragù preparato dalla chef Mela Flauto.
Quella è stata un’esperienza che mi ha fatto capire che cosa volevo dire, da lì in poi però le situazioni si sono un po’ complicate. CRASC prima era una compagnia riconosciuta dal Ministero della Cultura come centro di produzione e ricerca teatrale, quindi ovviamente avevamo la possibilità concreta di produrre spettacoli e di portare avanti la nostra ricerca artistica, poi nel 2015 il sostegno del ministero è venuto a mancare e non abbiamo potuto proseguire su questa linea, per cui avendo acquisito un’esperienza nella progettazione, soprattutto per la Regione e per il Ministero, ho iniziato a mettere questa esperienza al servizio di altri e la mia carriera professionale si è evoluta in un’altra direzione.
In questo momento la mia principale occupazione è la consulenza su fondi e finanziamenti pubblici e privati per lo spettacolo agli artisti e, anche se è un lavoro che può sembrare noioso perché è pieno di carte, pieno di burocrazia, mi dà molte soddisfazioni e mi permette di relazionarmi con altri, il momento che più amo è quando chiamo le persone per comunicare che il progetto è passato, perché genera entusiasmo, genera progetti nuovi, e di questo sono veramente molto contenta. Questa attività in particolare la sto sviluppando con un’altra cooperativa che ho fondato nel 2017 e che si chiama Mestieri del palco.
Un ultimo progetto più “teatrale” di cui mi sto attualmente occupando e che mi diverte molto nasce invece dall’esperienza che ho fatto nel 2019 organizzando la prima edizione del Napoli Horror Festival. Ho vinto l’anno scorso un bando della Regione Campania che si basava sulla creazione di contenuti innovativi per la promozione della cultura del territorio regionale e quindi ho fondato una nuova società che crea contenuti horror per promuovere la regione. In questo momento il progetto si sta sviluppando in collaborazione con Edenlandia ed è volto alla creazione di un percorso multimediale horror intitolato Disturbia, in cui si mescolano con il genere horror diversi elementi della cultura locale – pensiamo alle macchine anatomiche di cappella Sansevero o ai dipinti che sono nei musei campani da Caravaggio ad Artemisia Gentileschi, oppure alla classica sirena partenopea.
Come ha influenzato il tuo essere donna il tuo percorso formativo e professionale? C’è stato un momento in cui essere donna è sembrato un problema nello svolgimento della sua professione?
Non credo che il fatto di essere donna abbia influenzato le mie scelte in modo particolare, di certo il fatto che io sia stata la responsabile di molti progetti ha messo in luce la difficoltà delle donne di venire riconosciute nei ruoli di comando. Soprattutto quando ero più giovane e agli esordi mi è capitato di dover sottolineare il mio ruolo e di dovermi confrontare con chi non riconosceva in me l’autorità. Ricordo per esempio, in occasione di una rassegna che si teneva nella bellissima Villa d’Ayala a Valva, un paesino in provincia di Salerno, avevo la responsabilità dell’organizzazione di tutti gli eventi, ero giovanissima, avevo 24 anni o giù di lì, e dovevo curare i rapporti con gli artisti, con le maestranze, con l’amministrazione del paese, insomma faceva tutto capo a me. In quella situazione, soprattutto con le maestranze, con i tecnici che costruivano il palco, con quelli che si occupavano delle luci, io parlavo e nessuno mi ascoltava, quasi come se non esistessi. In un primo momento la presi un po’ alla leggera, pensando che forse fossero stupiti che una ragazza così giovane fosse la responsabile dell’organizzazione dell’intera rassegna e che avevano bisogno di un po’ di tempo per assimilare l’informazione, poi però cominciò a diventare problematico, perché comunque bisognava fare determinate cose e bisognava farle come dicevo io, e a un certo punto è dovuto intervenire Lucio Colle per fare una riunione per mettere in chiaro che ero io il capo. Era la prima volta che mi capitava qualcosa del genere, avevo già organizzato cose anche più grosse, però poi anche se nel corso degli anni non si è più verificata una situazione estrema come questa, ho notato che in ambito tecnico c’è ancora una certa reticenza a riconoscere il ruolo di una donna, rispetto a quanto avviene invece in ambito artistico.
Poi è ovvio che possiamo fare discorsi di anni sul rapporto uomo donna, indipendentemente dalla questione lavorativa, perché la questione di genere esiste ed è radicata, ed è un discorso parecchio complicato da affrontare e che richiede tempo e forza. Per superare questa dicotomia deve scattare qualcosa nella testa delle persone che ancora non è scattato, altrimenti c’è poco margine di miglioramento secondo me. A questo proposito: nello spettacolo La riunione che porto in scena assieme a una mia collega bravissima che si chiama Diana Di Paolo, uno spettacolo riservato a sole donne perché simuliamo appunto una riunione in casa come quelle che si facevano una volta con le consulenti estetiche per presentare i loro prodotti, intavoliamo con questa scusa una chiacchierata tra donne e in una battuta che dico proprio sul finale dello spettacolo ribadiamo che le mamme dei maschi, noi mamme dei maschi, perché anch’io lo sono, abbiamo una grandissima responsabilità. Credo che sia dall’educazione che diamo ai nostri figli e figlie che deve partire un cambiamento, non c’è altra strada e magari poi arriveranno anche cose buone.
In che modo tutto questo ha influenzato il tuo punto di vista attuale sul teatro e la tua professione?
Io sono stata molto fortunata perché il mio maestro Lucio Colle non mi ha mai fatto percepire una differenza di genere negli anni di apprendistato, io ho imparato a costruire un palco, ho imparato a mettere i fari, ho imparato a dipingere la sala, cose di cui solitamente non si occupano le ragazze nel loro percorso formativo. Invece lui l’ha dato talmente per scontato che chiunque si occupasse di teatro, quindi maschio o femmina, giovane o vecchio, dovesse acquisire queste competenze, che davvero non mi ha fatto mai sentire il peso della differenza. Per cui sono partita già con la mentalità giusta, se così si può dire, per me essere donna non rappresentava una differenza, ma un valore aggiunto, per cui probabilmente è questo che comunico agli altri e a chi collabora con me. Credo che il punto di partenza di queste cose sia molto importante perché è da lì che crei il tuo atteggiamento poi verso gli altri.
Dal tuo punto di vista, a teatro oggi è possibile parlare di una questione di genere?
A partire dalla mia esperienza e dal mio punto di vista che è in fondo privilegiato perché mi sono quasi sempre trovata in una posizione apicale, credo che in ambito teatrale forse la questione di genere è meno marcata rispetto ad altri ambiti. Direi che gli episodi di discriminazione sono più legati a una questione di mentalità in generale che a un’appartenenza al settore vera e propria. Il fatto che le donne che lavorano in ambito teatrale, a un certo punto della loro carriera, facciano più fatica ad andare avanti dipende da una questione più generica, se si è scelto un percorso in ambito organizzativo, per esempio, che prevede orari strani di difficile conciliazione, la selezione è quasi naturale, perché nella nostra società la donna ha ancora una serie di cose di cui si occupa in esclusiva, soprattutto in ambito familiare, e se manca un sostegno, un supporto reale, a un certo punto ci si avvilisce e spesso si abbandona. Ho visto molte persone che a un certo punto si sono avvilite non riuscendo a coordinare una serie di cose insieme, e quindi suppongo che il problema sia sempre lì, di come vengono impostate le cose, di come non si riesca a scardinare una certa mentalità, soprattutto al sud poi. La vita è talmente strana e complicata e c’è ancora bisogno di fortuna nell’avere accanto persone che hanno capito bene il percorso che una donna desidera intraprendere e quindi danno una mano, lavorando fianco a fianco, per far sì che si realizzi, allora ovviamente è tutto semplice, ed io in questo sono stata fortunata.
L'intervista è stata realizzata da Tiziana Sellato e Loredana Stendardo nel mese di marzo 2021 nell'ambito del progetto "Donne e impresa teatrale in Campania"
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