Raccontaci la tua storia professionale, il modo in cui hai scelto la tua professione in teatro e in che cosa consiste il tuo attuale lavoro.
La mia educazione al teatro è iniziata molto presto, vengo da una famiglia in cui l’arte in tutte le sue declinazioni era considerata una religione, i miei mi hanno sempre portato a vedere teatro, mostre, concerti, ricordo di aver visto il Pinocchio di Carmelo Bene a 8 anni. La mia però era anche una famiglia disfunzionale, una famiglia che dava moltissimo e prendeva moltissimo. Questa cosa mi ha fatto buttare nel teatro a diciassette anni. Quando ero ancora al liceo ho aperto un teatro con dei miei amici di scuola che, in parte, sono poi diventati anche colleghi di lavoro: eravamo in otto o nove, avevamo rilevato una cantina teatro che aveva circa una cinquantina di posti, e abbiamo iniziato a fare delle vere e proprie stagioni teatrali. Quindi per me il teatro è stato prima di tutto una fuga dai miei dolori personali, un posto dove potevo dimenticare per un attimo il peso delle mie sofferenze adolescenziali, dimenticare di essere me stessa ed entrare nelle vite degli altri, in un’altra dimensione. Questa cosa poi nel tempo ovviamente è cambiata perché ho capito che tutto quello che era il mio zainetto disfunzionale lo potevo usare per avvicinarmi alle altre storie.
Ho iniziato a recitare come comica, come stand-up, e il mio è stato un excursus molto strano, ho trovato subito un’agenzia, ho vinto un concorso nazionale per comici e mi è venuto un attacco pazzesco di depressione e di panico quando la mia agente mi ha proposto di fare da spalla a un comico molto famoso. Avevo vent’anni e la pressione era troppa per cui, pensando di salvarmi, mi dissi che avrei fatto più teatro, e ho poi lavorato con Mario Martone, poi con Cesare Lievi e per dieci anni ho fatto parte della compagnia di Toni Servillo. Con loro ho imparato moltissimo, in questo sono stata fortunata perché sono figlia di tempi in cui era possibile fare uno spettacolo e andare in tournée per mesi e mesi. Con Sabato, domenica e lunedì per la regia di Toni Servillo siamo stati in tournée per quattro anni, per tenere quel ritmo ed essere sempre all’altezza bisognava imparare in fretta.
Hai girato tanto, in anni in cui c’era la possibilità di portare gli spettacoli in tournée, c’è uno spettacolo cui sei particolarmente legata?
Uno spettacolo che ha rappresentato uno spartiacque per me è stato il monologo 4.48 Psychosis della drammaturga inglese Sarah Kane, prodotto dal Teatro Nuovo con la regia di Pierpaolo Sepe e con il quale sono stata in giro per l’Italia per tre anni. Questa esperienza mi ha insegnato molto, era il primo monologo che facevo, e ho fatto un lavoro molto profondo sul testo, sulla sua ritmica che ho cercato di rispettare, partendo dall’originale e poi secondo la traduzione di Gianmaria Cervo. Era un testo molto complesso e denso, parlava di depressione, di suicidio e lì ho capito quanto affrontare quelle tematiche fosse catartico non solo per me che lo facevo, ma moltissimo per il pubblico. Questo è in fondo quello che mi ha insegnato il teatro, mi ha insegnato a presentare con molta onestà un’esperienza, mi ha insegnato che l’attore è solo un canale che veicola messaggi di altri. E in proposito, un altro spettacolo che per me è stato significativo è un monologo che di recente ho tradotto dall’inglese, di cui ho curato la regia, che si chiama Ogni bellissima cosa di Duncan Macmillan e Johnny Donahoe, andato in scena con Carlo De Ruggieri. Anche qui si parla di depressione e di suicidio, ma secondo un altro punto di vista, quello di un bambino che per cercare di salvare la mamma dal suicidio decide di fare una lista di tutti i bellissimi motivi per cui valga la pena vivere. Lo spettacolo si trasforma in un bellissimo inno alla vita che coinvolge attivamente gli spettatori, attraverso lo scambio e la lettura di bigliettini con l’attore in scena. E così, a distanza di più di dieci anni, mi sono ritrovata a parlare di una cosa molto simile al testo di Sarah Kane, ma da un’angolazione completamente diversa. Ecco, se dovessi dire uno dei motivi per cui ho iniziato a fare questo mestiere, ed è uno dei motivi che continua a nutrirmi sia come persona che lo fa che come persona che ne fruisce, è la possibilità di stare insieme agli altri e di sentirmi meno sola. La mia idea di teatro è simile a quella che avevano i greci, ci sediamo insieme e parliamo della società.
Com’è avvenuto il passaggio alla regia?
L’interesse per la regia è nato poco alla volta, dal desiderio di raccontare qualcosa da un altro punto di vista e perché mi interessava poter fare un lavoro sul testo più profondo, anche in seguito agli studi in psicologia in teatro che ho fatto in Inghilterra. Del teatro mi ha sempre intrigato la possibilità di mettere a fuoco la società parlando delle relazioni, anche per questo mi piace la drammaturgia contemporanea. Mi fanno impazzire i drammaturghi che mettono in luce le relazioni come Tennessee Williams, Arthur Miller e, parlando di donne, Yasmina Reza. Il passaggio alla regia è avvenuto anche perché vivendo tanti anni in Inghilterra ho assorbito il loro modo di mettere in scena le opere contemporanee, in cui c’è un grande lavoro sull’attore e su come far arrivare la storia al pubblico. Quando affronto una regia le cose fondamentali per me sono le luci, gli attori e il lavoro sul testo, poi il resto è anche importante, ma preferisco una produzione più povera esteticamente, ma più focalizzata su una storia.
Inutile dirvi poi le difficoltà che le donne hanno in Italia, se vogliono essere registe. In Inghilterra è normale che le donne ricoprano diversi ruoli artistici e che possano avere posizioni di comando, lì il femminismo è vivo – del resto hanno una regina a capo di una nazione e hanno avuto per tanti anni la Thatcher – qui in Italia fatichiamo ancora moltissimo ad accettare questa cosa, malgrado le donne dimostrino di sapersela cavare egregiamente. Probabilmente è anche colpa di noi donne che ci adagiamo a certe situazioni, e allora dobbiamo infrangere un altro luogo comune che viene dal patriarcato, ovvero che le donne non riescono a fare rete, che non riescono a cooperare fra loro. In Italia c’è una mentalità diversa da quella inglese, e quindi credo che l’unica cosa che possa salvarci è fare sorellanza, sostenersi l’un l’altra. Io ad esempio sono favorevole alle quote rosa e ogni volta che lo dico qui in Italia le femministe storcono il naso: è vero, è tristissimo imporre la presenza di una donna, però se non fosse imposta a livello di legge, molte donne purtroppo non sarebbero dove sono. Prima o poi questa cosa entrerà nell’immaginario culturale, è così che poi le cose cambiano. Pensiamo all’aborto per esempio: è stato accettato perché alla fine è stata emanata una legge che ci ha fatto capire che era un nostro diritto e, nonostante ciò, ancora oggi stiamo a discuterne. Le cose si cambiano anche così, è facile dire che le donne sono uguali agli uomini, ma se poi legalmente non hanno il loro stesso potere di cosa stiamo parlando? E questo è quello che ti fa arrabbiare di più, perché una donna deve sempre dimostrare qualcosa, mentre per i colleghi maschi è sempre tutto un po’ più scontato.
Qual è dal tuo punto di vista la questione di genere in teatro oggi?
Credo che la questione fondamentale sia sempre quella del riconoscimento e della disparità di trattamento, a volte in quanto donna ho difficoltà addirittura a essere riconosciuta dai colleghi maschi quando sono io a creare un progetto che li include, mi è capitato sentirli parlare di progetti che hanno fatto tramite me e hanno dimenticato di citare il mio nome. Quindi credo che sia importante parlarne e sottolineare determinati atteggiamenti legati al patriarcato.
Mi ha cambiato moltissimo vivere in Inghilterra per più di dieci anni e per vari motivi, uno di questi è sicuramente il femminismo che lì è qualcosa di vitale ed è sostenuto molto anche dai maschi, specialmente negli ambienti culturali. In Inghilterra è normale vedere direttrici di teatro, donne registe, drammaturghe che ricoprono posizioni cosiddette privilegiate e, nonostante ciò, rivendicano ancora una parità maggiore. Quello che mi ha traumatizzato di più tornando in Italia è stato vedere come molte persone, anche in ambito artistico, non credano in una parità di genere e inoltre si ha questa idea del femminismo come qualcosa di molto noioso e antiquato, oppure è considerato come roba da invasate. E invece deve essere una lotta comune, è necessario condividere, rendere partecipi anche i maschi delle difficoltà e delle limitazioni che vive una donna, senza violenza, senza alzare muri, perché credo che alcuni di loro qui in Italia non se ne rendano neanche conto.
Come ha influenzato il tuo essere donna il tuo percorso formativo e professionale? In alcuni momenti ti sei trovata a fare delle scelte per questa ragione?
Non ho mai pensato di non dover o poter fare qualcosa perché sono donna, ho sempre cercato di fare quello che volevo, senza remore. Certo, non sempre va tutto liscio e, soprattutto agli inizi, non sempre senti di avere il giusto riconoscimento, anche se mi reputo una persona fortunata negli incontri e che ha sempre ricevuto molta stima per il proprio lavoro. Ricordo per esempio una delle mie prime esperienze da regista, tanto tempo fa, al Mercadante, un evento legato all’8 marzo. Eravamo diverse registe e avevamo a disposizione quaranta minuti per presentare un’anteprima di un nostro spettacolo. Io stavo lavorando su Superwoobinda di Aldo Nove, un insieme di ritratti italiani di personaggi folli anni ‘90, che avevo mescolato con un altro lavoro dello stesso autore che mi interessava e che si intitola Mi chiamo Roberta, ho 40 anni e guadagno 250 euro al mese, da cui avevo ricavato quattro monologhi. Ricordo che durante le prove a un certo punto arrivò la notizia che il tempo a nostra disposizione non era più quaranta minuti ma mezz’ora. Ok, grazie. Dopo poco ci comunicarono che sarebbero stati solo venti minuti ciascuna, e così fui obbligata a togliere un personaggio e iniziai a temere che a un certo punto il tempo sarebbe stato ridotto ancora di più e che non avrei avuto tempo sufficiente per mostrare il mio lavoro. Per questo motivo rielaborai l’idea registica, mettendo un timer in scena che scandiva materialmente il tempo dei diversi personaggi che interpretavo e la mia ansia di riuscire a mostrare quello che volevo. Per fortuna, nonostante gli imprevisti, il mio lavoro piacque e in seguito è diventato uno spettacolo più grande prodotto proprio dallo Stabile. Questo episodio però mi fa pensare che noi donne dobbiamo spesso accontentarci delle briciole, ringraziare e sorridere sempre, anche per soli venti minuti di attenzione, e questo è un vero peccato, è qualcosa che permea il subconscio, il modo in cui ci si pone nei confronti di un interlocutore per cui una donna deve essere sempre molto gentile, flessibile e malleabile. Secondo me è importante che le donne diventino sempre più consapevoli del potere che hanno unendo le forze, per reclamare il proprio posto, perché non è possibile accontentarsi delle briciole. Bisogna fare per forza così, altrimenti ci sarà sempre un timer a scandire i minuti.
L'intervista è stata realizzata da Stefania Bruno e Loredana Stendardo nel mese di marzo 2021 nell'ambito del progetto "Donne e impresa teatrale in Campania"
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