Raccontaci la tua storia professionale, il modo in cui ha scelto la tua attuale professione e in che cosa consiste il tuo lavoro, con riferimento, se vuoi, a uno o più progetti in particolare?
Ho fondato nel 2006, insieme a Giovanni Trono, TeatrInGestAzione, una compagnia che si occupa di teatro in tutte le sue declinazioni. Prima di questa esperienza avevo costituito insieme ai compagni di Accademia una cooperativa teatrale che si chiamava il Mattatoio Teatro, volevamo professionalizzarci fin da subito, per avere la possibilità di essere autori delle nostre opere e quindi sdoganarci da quello che poteva essere la subordinazione a un sistema che allora già contestavamo ma, se devo dire la verità, era migliore di quello che c’è adesso.
L’esperienza della cooperativa non è durata a lungo, ed è con TeatrInGestAzione che comincia a svilupparsi la pratica che definisce la mia, la nostra identità, una pratica fin da subito votata a interrogarsi sullo spazio e sulle forme dello spettacolo e del teatro, con uno sguardo particolare ai processi più che ai formati e agli esiti. In questo senso, per ogni tipo di progetto abbiamo sempre cercato di rendere il processo fin da subito estetizzato, in modo che potesse incontrare sin dal principio lo sguardo esterno del pubblico, prima dell’esito spettacolare.
Dopo i primi anni di spettacoli, in cui, come tutti fanno, abbiamo provato e riprovato, siamo arrivati a quello che ha caratterizzato poi la nostra poetica, mi riferisco a due progetti in particolare Altofragile e Altofest, nati entrambi nel 2010, con i quali ci siamo profondamente interrogati sulla distanza che percepivamo tra la vita quotidiana dei cittadini, degli spettatori, della città che ci accoglieva e i processi artistici più sperimentali.
Con Altofragile abbiamo invitato gli spettatori a seguire il processo di creazione, non nel momento in cui si approssima alla sua definizione spettacolare, ma dall’inizio, quando i performer si trovano con il materiale da affrontare senza la corazza della forma dello spettacolo, quando sono nudi, e quindi fragili, di fronte a un cammino verticale, poetico. Per tre mesi gli spettatori potevano entrare e uscire dalla nostra sala di lavoro e condividere con noi i nutrimenti, i materiali, i libri, tutto quello che stavamo indagando e studiando, potevano passare con noi il tempo delle analisi, il tempo della pausa, avevano la possibilità di approcciare liberamente a quella che è la vita quotidiana di un autore all’opera.
In maniera complementare, abbiamo poi inaugurato Altofest che concepiamo come opera teatrale totale “in forma di festival” che si basa su una drammaturgia molto precisa in cui la città intera si fa palcoscenico, il tempo del teatro è scardinato, perché la sua durata non è quella solita tra l’ora e l’ora e mezza di spettacolo ma dura cinque giorni di programmazione, e i protagonisti sono coloro che noi definiamo il “popolo di Altofest”, composto indistintamente, in maniera orizzontale, dagli artisti che accogliamo da tutto il mondo fino ai cittadini che li ospitano nelle proprie case, ai visitatori, agli operatori culturali, allo staff, all’organizzazione: tutti quanti insieme compiamo questo atto poetico, portando avanti una domanda sull’insufficienza del singolo spettacolo e per rispondere a un’esigenza politica del teatro.
Questi due progetti, nati insieme e condotti insieme per tre anni, potevano dare la possibilità ai cittadini, ai visitatori e agli spettatori di confrontarsi, con Altofragile su che cosa vuol dire entrare nella quotidianità di un artista al lavoro e, al contrario, con Altofest su che cosa vuol dire quando un atto poetico stravolge il quotidiano di uno spazio domestico. Il progetto Altofragile è poi terminato nel 2013, mentre il progetto Altofest continua tutt’ora ed è anche uscito fuori dai confini di Napoli perché sia nel 2018 che nel 2019 è stato ospitato da due capitali europee della cultura.
Sia Altofest che altri progetti che facciamo, e che rispondono alla stessa tensione di mettere in crisi la forma dello spettacolo così come la conosciamo, non sono una critica alla città o alle dinamiche culturali in sé per sé, ma rappresentano una proposta ulteriore che risponde alla presa di responsabilità di TeatrInGestAzione, in quanto autori che vivono un luogo, che vivono una città. Riteniamo infatti che il nostro ruolo nella società sia quello di mantenere sempre estesa la voragine critica rispetto a tutto quello che accade, e così cerchiamo sempre di rispondere alla necessità di creare un pensiero critico nei luoghi in cui innestiamo i nostri lavori. Cerchiamo di farlo in tutte le forme possibili e immaginabili, perché per noi il teatro è linguaggio e luogo da abitare in un certo modo, sempre domandandosi e mai accettando supinamente le tendenze in atto, per cui rifiutiamo in tutto e per tutto il concetto di subordinazione. Tutto ciò non vuol dire non essere aperti al dialogo con le istituzioni, ma significa avere un approccio partecipativo in grado di riportare a un equilibrio la relazione tra l’arte e il quotidiano, per dire che la poesia è già tutta intorno a noi, non dobbiamo inventarla, dobbiamo però forse re-imparare a guardare. In questo senso, re-imparare a guardare presuppone un atto fortemente di cura, e la cura solitamente nella storia dell’umanità è sempre associata al femminile.
Parlando di femminile, in relazione al teatro e alla tua esperienza personale, qual è la tua percezione?
Nel caso del mestiere del teatro, per me il femminile è principalmente un’attitudine, un certo tipo di presenza che spesso non fa distinzione tra corpo femminile o corpo maschile. Il femminile è quella capacità di abbandonarsi all’evento che accade. Parlando più politicamente, pensando alla situazione delle donne nel sistema teatrale, rispetto a quello che io vedo, a quello che io vivo, sicuramente portare avanti un proprio progetto in una propria compagnia, con altre persone che condividono la stessa poetica, non ci fa porre la questione di genere, perché ci sentiamo tutti uguali, con le stesse possibilità di azione, di ruolo – tra l’altro in una compagnia i ruoli non esistono più di tanto, perché quando si lavora a un’operazione artistica si mettono a disposizione le proprie competenze.
Se invece prendiamo in considerazione la presenza di donne nelle istituzioni, nei sistemi e nelle altre compagnie che ho incrociato, devo dire che siamo molte di più degli uomini. Molto spesso la macchina del teatro è femminile, la macchina organizzativa, la macchina pensante, la macchina attoriale è quasi sempre femminile. Il problema si pone nel momento in cui andiamo a vedere non tanto quali sono i ruoli di potere, ma i ruoli di rappresentanza, quando vediamo un direttore di un festival, un direttore di teatro, un direttore di circuito è maschio, in realtà quel maschio ha solo un potere di rappresentanza, e non potrebbe fare proprio nulla se non avesse alle spalle la sua squadra che quasi sempre è tutta al femminile. Allora, secondo me, dovremmo riportare sul tavolo la questione non tanto del potere ma della rappresentanza, proprio perché facciamo teatro. Se non sappiamo mettere in discussione la differenza tra queste due cose, se non sappiamo parlare di rappresentazione, di emanazione, di evocazione, di figura, rischiamo di farci le domande sbagliate e quindi anche di portare avanti una lotta sbagliata, anche se giusta nei principi. Allora il punto, per me, è davvero mettere in discussione il principio di rappresentanza, cioè portare sul tavolo la domanda su chi ci rappresenta e perché, se non rappresenta la realtà delle cose?
Dalle tue parole si evince quanto ogni tappa del tuo lavoro sia stata una scelta consapevole di affermazione di una voce, di un punto di vista. In questo percorso c’è stato un momento in cui essere donna ha fatto la differenza in un modo o in un altro?
Per me, l’essere donna riguarda sempre la consapevolezza di sé, di quello che si è, sia come entità esistente, sia come rappresentazione nel mondo e nel contesto in cui si agisce. Allora io so di essere figurativamente donna e forse di avere anche un’intelligenza femminile, se si può dire così, ma fa parte di una consapevolezza, proprio come tutto il resto che mi costituisce, che uno applica nel momento in cui ha una relazione con le cose e con le persone. Quindi sicuramente mi è capitato in alcuni momenti della mia vita e del mio percorso di formazione o lavorativo, sia di sfruttare il fatto di essere una donna, sia di dover magari combattere un pregiudizio, in egual modo.
Qual è il tuo punto di vista sulla questione di genere a teatro, se esiste e se è possibile parlarne?
Secondo me, la questione va posta sempre sulla capacità di ognuno di noi di farsi le domande giuste, la questione di genere nello spettacolo coincide con la domanda sull’estetica, cioè sulla forma che noi proponiamo ai nostri spettatori. Nel momento in cui a teatro, che è un luogo dove non solo è possibile ma è doveroso mettere in crisi la forma, questo non succede, come possiamo pensare che si possa superare la discriminazione tra uomini e donne riguardo ai luoghi e ai ruoli di potere?
Il teatro è un luogo dell’accadimento poetico, quindi qualunque corpo è capace di evocare la dimensione poetica, ogni vita che attraversa il palcoscenico è portatrice di segni, ma questi segni non afferiscono al fatto che io sia maschio o femmina, ma sono i segni-sintesi di un’esistenza. Allora, se sul palcoscenico non accade un processo di trasformazione – e questo processo di trasformazione deve accadere indifferentemente e indipendentemente dal genere – non c’è teatro, perché non c’è rivelazione. In questo senso il teatro è un luogo politico, dove ci si domanda, ci si riconosce, per fare tutti un passo ulteriore, ma questo passo ulteriore non può esserci se non ci interroghiamo tutti alla stessa maniera. Quindi la questione di genere è una questione non solo di rappresentanza ma anche di rappresentazione, se cominciamo a sussumere questo principio nell’azione stessa che compiamo nei nostri processi creativi, allora magari sarà un processo un po’ più lento ma sicuramente arriverà al luogo che è il teatro.
Mi piace sempre molto ricordare quello che diceva Kounellis, rispetto alla definizione del suo mestiere: diceva di non essere uno scultore, ma un pittore, perché sebbene componesse solidi in uno spazio il principio compositivo che lo guidava era quello della pittura. Questo discorso si può riportare anche ai propri corpi, io posso pormi una domanda su quale sia il principio che guida la mia esistenza, se è un principio maschile o se è un principio femminile, e su come questo principio si modifichi rispetto a un contesto maschile o a un contesto femminile. Se noi ci rivolgiamo al principio delle cose, probabilmente, ci può apparire tutto diverso, non bisogna abbandonarsi alla facile critica dell’esito, dell’ultimo rigo, ma chiedersi sin dall’inizio che cosa produce quel discorso, quello spettacolo, quella parola, quella composizione. Se il principio compositivo o se il principio esistente è un principio senza sesso, oppure sessuale ma non generico, allora probabilmente stiamo parlando di un qualcosa che viene strumentalizzato dal potere, ma che non ha consistenza, non ha peso specifico, ma lo acquisisce anche grazie a noi, ai nostri comportamenti. E dunque, che cosa portiamo noi al potere? Bisogna fare molta attenzione, secondo me, anche al modo di sollevare le critiche, perché è un attimo che da streghe si passa essere carnefici, quindi bisogna essere molto cauti, avere tanta cura, dato che dovremmo saperla avere, e non avere fretta di raccogliere un frutto che non c’è.
Chi lavora con l’immaginario, chi ha per materia l’immaginario, la poesia, dovrebbe proprio in virtù di situazioni ben più gravi, pericolose, violente, avere più coraggio. Dobbiamo assumerci questa responsabilità di avere coraggio almeno nell’arte, così che poi possa riverberare nella vita di altre di altre persone che invece con l’arte non hanno la fortuna di avere a che fare tutti i giorni.
L'intervista è stata realizzata da Stefania Bruno e Loredana Stendardo nel mese di febbraio 2021 nell'ambito del progetto "Donne e impresa teatrale in Campania"
Guarda il video dell’intervista QUI