Se essere donna è già una “impresa”, esserlo in un contesto ancora poco tutelato, inquadrato e riconosciuto come quello teatrale lo è ancora di più.
Se poi si fa parte di quella generazione “di mezzo” che forse più delle altre sconta la precarietà quale modus operandi imprescindibile, con cui fare i conti destreggiandosi tra incertezze, impossibilità a pianificare su lungo termine, mancanza di supporti economici e allora la sfida con se stesse e con il mestiere che si vorrebbe compiere diventa ardua.
Ma forse non impossibile.
Certo è che bisogna amare davvero ciò che si fa, credere nella piccola rivoluzione quotidiana che ciascuna azione compiuta può determinare, essere animate da grandi utopie pronte ad essere ridimensionate se necessario (e sarà sempre necessaria questa eventualità, ahimè), credere fermamente che essere idealisti, creativi, lungimiranti e non arrendevoli siano le migliori qualità che la tua persona possa portare in dote a questo sgangherato mondo e a Napoli un po’ di più.
Ecco, personalmente credo di essere portatrice sana di tutti i “difetti” di cui sopra e sebbene razionalmente non consiglierei neppur al mio peggior nemico di intraprendere lo stesso mio percorso, posso affermare senza paura di essere smentita (neppure da me stessa) che la freddezza calcolatrice con cui valutare quale ruolo occupare in ambito lavorativo non mi appartiene né mai mi apparterrà neppure con l’incedere degli anni. E il nascere folle, aprire le zolle – come meravigliosamente scrive Alda Merini – sia realmente tra i pochi modi per scatenar tempesta a fronte dell’immobilismo diffuso e della sfiducia paralizzante che rischia di fare sempre nuovi adepti.
Per fare ciò, in una ipotetica soluzione ideale, sarebbe decisamente vantaggioso operare in sinergia con altre operatrici o operatori, trovare in esponenti delle Istituzioni o comunque in chi ha un maggior peso nelle procedure decisionali locali, a ciascun livello, dei riferimenti competenti e illuminati, godere di una serie di diritti e agevolazioni in grado di difendere il proprio lavoro quando questo è in pericolo (come ad esempio attualmente sta accadendo a causa delle conseguenze della pandemia) ancor di più di quanto non lo sia normalmente… ma nella realtà dei fatti non è esattamente questa la condizione in cui ci si trova ad operare ed è l’idea di irrilevanza e trasparenza che propende a farsi strada, fortunatamente osteggiata da caparbietà e perseveranza.
Ma per quanto ancora? Chi pensa, progetta, realizza, comunica, traduce l’”immateriale” in spettacoli, rassegne, piccoli o grandi eventi e silenziosamente sobilla domande, curiosità, instilla dubbi, incita alla riflessione, al pensiero, alla critica, è forse giunto il momento che venga riconosciuta – al pari di altre – una lavoratrice indispensabile.
Non precaria, a tempo determinato, a percentuale… semplicemente: INDISPENSABILE. E come tale possa avere voce, avere ascolto, avere visibilità. Ed essere messa nelle condizioni di poter essere valutata sulla base di ciò che fa e non di ciò che “potrebbe”, “vorrebbbe”, “desiderebbe” fare senza che ce ne siano le condizioni.
Del resto, poi mi chiedo: ma se essere donna è già una “impresa”… non dovremmo essere a metà dell’opera?
Ileana Bonadies
giornalista, organizzatrice di eventi, direttrice del webmagazine QuartaParete
Settembre 2020, progetto Donne e impresa teatrale in Campania